venerdì 28 agosto 2009
L'uomo e il capitale
Il lavoro umano deve prevalere sul capitale perché quest'ultimo è solo uno strumento e non un valore umano in sé. Nelle decisioni aziendali bisogna tener conto anche degli interessi dei lavoratori” : così Mons. Reinhard Marx arcivescovo di Monaco di Baviera, commentando l'ultima Enciclica di Benedetto XVI ”Caritas in Veritate”.
Parto da questa citazione per avviare un approccio “nuovo” al rapporto tra l'Uomo e il Capitale.
Credere che il Mercato sia capace di autoregolamentarsi, alla luce della crisi finanziaria che ha sconvolto il mondo, significa voler nascondere la testa nella sabbia. Mimetizzato in una Borsa che sta sorprendendo molti per ottimismo e buoni risultati, un nuovo potere, o meglio nuovi poteri, al plurale, visto che a ridisegnare le gerarchie di chi comanda sono più protagonisti: dietro le quinte di Wall Street e dopo la grande crisi sta emergendo un nuovo ordine finanziario, che non è necessariamente migliore di quello che lo aveva preceduto. Anzi: il nuovo assetto di potere somiglia a una foto del Politburo sovietico dopo una purga. Alcuni grandi del passato, come IndyMac, Bear Stearns e Lehman Brothers, sono defunte; altre, come Merrlil Lynch, Wachovia Bank e Washington Mutual, sono state assorbite da altre istituzioni, nella maggior parte dei casi con la benedizione della Casa Bianca e un sostanzioso finanziamento del Tesoro Statunitense. Adesso si piazzano la Goldman Sachs e la JP Morgan, due banche che hanno giocato un ruolo determinante nell'incrementare il livello di rischio degli investimenti azionari prima della recessione e che oggi – avendo le mani in pasta in tutte le transazioni di mercato – traggono beneficio dalle iniziative governative dirette a rilanciare l'economia del Paese. Le banche tradizionali come Morgan Stanley, la Barclays e la Bank of America-Merrill Lynch, sebbene ferite dalla stretta creditizia, riescono comunque a occupare un secondo livello di potere, mentre gli “zombie” - banche che sono insolventi ma che continuano a vivere grazie ai salvataggi governativi, si piazzano al fondo della piramide. Si tratta di istituti come Citigroup, Wells Fargo e Sun Trust Bank, che a dispetto dei profitti record registrati nell'ultimo trimestre sono ancora intossicati dall'enorme quantità di subprime presenti sui loro libri contabili.
Se Obama, che ha speso una buona parte del suo capitale politico per salvare la Borsa, si aspettava che dalla crisi sarebbe emerso un nuovo senso di consapevolezza finanziaria, beh si è sbagliato di grosso.
Il livello di rischio piuttosto che diminuire è cresciuto . E non solo perché adesso, sfruttando l'abolizione del Glaser-Steagall Act, le banche di investimento e le società di private equity come la Kkr, la Apollo Advisors e il Citadel Invesment Group possono intervenire in ambito bancario tradizionale, ma anche perché si é incrementata sensibilmente la velocità con la quale vengono completate le manovre speculative. Se prima si giocavano partite che avevano a che fare con la stesura di contratti speculativi come Credit Default Swaps (CDS) e Cdo, adesso la sfida si gioca sul filo dei millesecondi, 500 per esattezza , del “flash trading”, pratica che offre un ingiusto vantaggio ai trader istituzionali, permettendo loro di manipolare il mercato; e nel territorio misterioso delle “dark pool”, che consentono agli operatori di liberarsi di azioni che si stanno muovendo al ribasso senza esporsi a manovre di shortselling e evitando di soffrire perdite, interferendo così con le dinamiche di mercato. A dirlo é William Cohan ex dirigente della Chase Manhattan ( e autore del bestseller “House of Cards. A Tale of Hubris and Wretched Excess on Wall Street” ), e a confermarlo é Robert Garfield, Ceo del Nasdaq, in una lettera indirizzata a Mary Schapiro, nuovo presidente della SEC: “sono stratagemmi che mi preoccupano. Ho chiesto ai miei agenti di studiare un modo per porre fine immediatamente a dark pool e flash trading”. Ma la misura annunciata ha il sapore di quelle che si prendono quando i buoi sono scappati dalla stalla.....!
Quindi, pare proprio che ci risiamo: la grave crisi finanziaria non ha insegnato gran che e le conseguenze stanno abbattendosi pesantemente sull'occupazione, cioè sull'Uomo e sulla Famiglia.
La condizione dell'uomo della strada, a differenza di quella dell'industria e della finanza, continua a peggiorare. Le sue prospettive non sono incoraggianti: lo sta dimostrando il calo dei consumi a cui minaccia di sommarsi una graduale deflazione. Per i meno abbienti, il peggio non è passato, potrebbe dover ancora venire.
Hanno dato l'allarme i dati sulla povertà, in crescita non soltanto in Italia, anche se da noi il fenomeno è più grave che altrove: i ricchi sono diventati più ricchi ed i poveri sempre più poveri.
Non è questione solo dei disoccupati, ma anche dei “working poor”, i poveri che lavorano a salari e stipendi decrescenti, i precari, i “part timers” e così via. Nel 2010 e negli anni successivi, la crisi rischia di accentuarlo: non è escluso che la percentuale della gente che vive in semipovertà salga dall'attuale 13%. Una situazione inaccettabile.
Nell'incipiente convalescenza dell'economia globale di questa piaga non si parla. Al contrario, si discute di come conferire mobilità al mondo del lavoro, ossia di dare ai manager licenza di tagliare le paghe, esportare impieghi e licenziare i dipendenti per aumentare la produttività delle aziende e rilanciare l'economia globale. E' innegabile che in casi disperati queste misure possano essere necessarie alla sopravvivenza dell'impresa, ma più spesso vengono adottate in nome di un maggiore profitto. Va anche detto che i più accesi critici della “immobilità” del mondo del lavoro, quelli che vorrebbero deregolamentarlo, sono gli stessi che deregolamentarono la finanza trascinandola nel baratro.
Se l'avessero vinta, il mondo andrebbe incontro a una tragedia umanitaria.
La convalescenza dell'economia globale deve premiare, non penalizzare l'uomo della strada. Deve creare nuovi posti di lavoro, inquadrare i precari, condurre a salari e stipendi dignitosi, ridurre la sperequazione e ridistribuire la ricchezza.
E' quello che Barack Obama tenta di fare in America con la riforma del sistema sanitario, con il piano di sviluppo delle energie alternative e con i lavori pubblici. E che il governo Berlusconi dovrebbe tentare di fare in Italia.
E' falso che sia una missione impossibile, un miraggio, come sostengono i profeti delle deregolamentazioni. Lo fece il presidente Roosevelt nella lunga convalescenza economica, un decennio, dopo la grande depressione. Fu così che l'America diventò una superpotenza: regolamentando l'industria e la finanza e dando vita al ceto medio.
Un anno fa, quando ricevettero miliardi di dollari dallo Stato, le banche americane sull'orlo del dissesto promisero di “restituire qualcosa alle imprese e alle famiglie”. Non solo non hanno restituito nulla, pur essendo ritornate a registrare utili vertiginosi ( e a versare premi d'oro ai manager). Hanno anche semiparalizzato il credito alle une e alle altre, una delle cause del ritardo della ripresa dell'economia. Roosevelt usò con loro il pugno di ferro, non il guanto di velluto. Numerosi manager bancarottieri finirono in carcere e pur di uscirne accettarono che il presidente regolamentasse i mercati, e abbracciarono la causa dell'uomo della strada. Una lezione purtroppo dimenticata.
Se da un lato c'è la consapevolezza degli effetti della crisi, dall'altro la tentazione di sminuirne il rischio è forte e si riprende la corsa dal punto in cui la si è interrotta.
Da noi è ancora peggio: si glissa sui problemi, se ne rimanda sine die la risoluzione, si pensa al presente e non al futuro.
La crisi è stata ed è dura. Certamente la più dura che le nostre generazioni abbiano mai conosciuto, la più violenta e invasiva nelle sue conseguenze sulla società e sull'economia reale. Affermarlo non è disfattismo. Né richiamarne la gravità significa farsi trascinare dal pessimismo. E' piuttosto l'atteggiamento contrario quello che affonda il Paese: minimizzare, ridimensionare, parlare d'altro. Invece solo uno scossone, un forte sussulto possono sbloccarlo.
La crisi fa capire fino in fondo come in Italia sia saltato il rapporto tra lavoro e rendita e quanto sia urgente e giusto dare sostegno al lavoro e alla creazione di valore, penalizzando la rendita. Un passivo è un debito che va rimborsato. Che costa. Sempre. E la finanza creativa potrebbe trasformarlo in un attivo. E' quello che si è preteso di fare in questi anni di cartolarizzazioni e di trasformazioni finanziarie. C'è poi il valore del fattore tempo: ci rendiamo conto troppo tardi di quanto sia strategico assumere una decisione nel momento giusto e quanto possa costare prenderla in un momento sbagliato: per esempio l'eliminazione dell'I.C.I. e l'affair Alitalia...!
La crisi denuncia un'evidenza: il futuro conta più del presente. Pensiamo alle radici della crisi. Essa nasce attorno ai mutui, ai debiti e al cosiddetto “effetto leva”. A carico delle famiglie portati al 120%, comprendenti, dunque, tutto il valore della casa, i mobili e anche la macchina. Per le imprese la leva del debito spinta fino ad un rapporto di 1 a 20. Per di più con l'effetto moltiplicatore che ha portato tante volte quei 20 a essere usati per ottenere, da un altro soggetto creditizio, 200 e così via. Fino a giungere, dopo quattro o cinque passaggi, da un 1 iniziale di soldi veri, a un 1.000 finale di soldi finti.
Il debito, quindi. Il cuore di tutto. E con un debito soggetto a queste impennate schizofreniche, il presente si è mangiato il futuro.
Ma oggi abbiamo l'occasione per prenderne atto e cambiare. Non coglierla sarebbe un gravissimo peccato di omissione. Cosa impedisce, per esempio, di adottare regole stringenti per evitare che la leva del debito superi il rapporto di 1 a 6-7 ? Sarebbe puro buon senso applicarla subito qui in Italia e farla applicare in Europa. Ma oggi l'Europa politica non c'è: avevamo sognato un'altra Europa. Ci sarebbe bisogno di un'altra Europa.
In Italia si è scelto di attendere e scommettere sul nuovo corso dell'amministrazione americana e le scelte della Germania. Un po' poco! Specie in considerazione del fatto che dopo la crisi, niente sarà più come prima. per la finanza e per l'economia reale. La crisi ci può consegnare due modelli diversi di Italia: un Paese deindustrializzato oppure uno che rilancia su basi nuove la propria vocazione industriale. Dobbiamo evitare il primo scenario e lavorare per il secondo. L'effetto deprimente, in termini di licenziamenti, cassa integrazione e ridimensionamento dei siti produttivi, è già visibile. Le difficoltà si allargano a macchia d'olio con una rapidità sorprendente, spesso senza che se ne possa cogliere fino in fondo la gravità se non quando gli effetti sono devastanti ed i danni irrecuperabili.
I lavoratori entrano così nella spirale delle difficoltà e, in assenza di adeguati strumenti di protezione sociale, perdono fiducia. Accanto a loro un popolo di imprenditori medi e piccoli che sono di fronte all'aut-aut più pesante: chiudere prima di perdere tutto e riciclarsi con le rendite disponibili; oppure tenere duro.
Il rischio di deindustrializzazione è alto.
La rendita si è sostituita al lavoro, il denaro alla merce, la speculazione alla creatività. Il breve termine ha prevalso sul lungo termine. L'indebitamento sul capitale reale. I simboli della ricchezza sulla ricchezza vera e propria , quella basata sulla creazione di valore. Così il capitalismo è stato pervertito dalla finanziarizzazione. E il sistema è saltato, condannandoci ora al cambiamento.
Intanto il problema più urgente è per chi il lavoro non ce l'ha o lo perde. Un problema potenzialmente devastante per un Paese che solo di recente, col Protocollo sul Welfare negoziato da Romano Prodi nel luglio 2007 ha iniziato un percorso di riforma e di rafforzamento degli ammortizzatori sociali. Occorre riprenderlo con urgenza: la difesa del lavoro non può ridursi alla vecchia cassa integrazione e alla cassa in deroga. Serve molto di più. Servono ammortizzatori sociali universali, nuovi meccanismi di salario d'ingresso, forme straordinarie di incentivazione a favore dell'occupazione femminile, nuovi contratti di solidarietà. Tutto questo a difesa del lavoro che c'è e che non va assolutamente perso. A seguire viene il resto, compresa l'applicazione del nuovo modello contrattuale basato sul rafforzamento del salario di produttività.
Di fronte alla crisi che viviamo, la tentazione sembra essere quella di ritornare all'eterna dialettica tra Stato e mercato, riesumando una presunta supremazia del primo di fronte ai fallimenti del secondo. Non è vero che la situazione attuale è il prodotto solo dei fallimenti del mercato. A ben vedere buona parte del dissesto della finanza globale affonda le sue radici nell'incapacità dello Stato di fare fino in fondo il proprio dovere, regolando e governando gli avvenimenti che hanno trasformato il mondo. Gli Stati non hanno tenuto il passo della globalizzazione. E ciò proprio mentre l'economia e la finanza internazionale si integravano a ritmi rapidissimi. La globalizzazione delle istituzioni non c'è stata.
Ma torniamo al lavoro, il cuore della crisi. Oggi nel nostro Paese convivono due mondi distinti. Quello dei garantiti, dei lavoratori stabili coperti da un welfare modellato a uso e consumo del maschio italiano di mezza età. E quello dei precari, dei giovani, degli immigrati, degli over 50 usciti anzitempo dal mercato del lavoro. Sono loro i nuovi “invisibili”, tutti rimasti fuori da una cittadella dei diritti sempre più settaria ed esclusiva. Una politica veramente riformista deve avvicinare le generazioni e deve unire questi due mondi. Più nell'immediato c'è l'obbligo di occuparsi di chi queste disuguaglianze di reddito e mobilità sociale le subisce, ogni giorno, sulla propria pelle. Di chi sta perdendo o perderà il lavoro di qui a poco e non potrà confidare nella rete di salvataggio di un sistema di salvataggio di un sistema di ammortizzatori sociali. Di chi fa i conti con una busta paga che non basta mai e si trova sfiduciato, senza riuscire neanche solo a immaginare un futuro migliore, per se stesso e per i propri figli.
Il nostro Paese ha bisogno di politiche forti per aumentare la buona occupazione e contrastare la precarietà del lavoro, di interventi per l'integrazione sociale, per la famiglia, per la casa. L'attuale composizione della spesa sociale, però, non consente questi interventi. Il welfare italiano non funziona anche perché è squilibrato . Due soli voci, le pensioni e la sanità, divorano oltre l'87% del totale della spesa sociale, divorano le risorse per le politiche sociali, per l'assistenza dei non autosufficienti, per il miglioramento dei servizi di cura. Questo modello di welfare è destinato a esaurirsi, soprattutto alla luce dell'invecchiamento della popolazione italiana e dell'incremento della spesa sanitaria, inevitabile per via dell'aumento della speranza di vita. Come potremmo contrastare il crollo del tasso di natalità a costi zero, senza cioè un serio investimento per la famiglia?
Qualcuno dice che la globalizzazione ci ha incastrato. La verità che ci siamo lasciati incastrare dalla globalizzazione, non abbiamo saputo governarla. Così mentre le trasformazioni mondiali obbligavano tutti a cambiare passo, noi non abbiamo avuto la forza o la lucidità per farlo. Abbiamo preferito aggirare gli ostacoli, pensando solo al presente. E il futuro di allora – cioè il presente di oggi – ci ha portato il conto.
Eravamo una società che invecchiava già molto rapidamente?. Non solo non abbiamo invertito la tendenza, l'abbiamo accentuata.
Eravamo un Paese diviso tra Nord e Sud? Questo enorme divario invece di restringersi, com'è accaduto in altri Paesi europei caratterizzati da forti squilibri territoriali, è andato via via ampliandosi.
Avevamo una società organizzata per classi, senza “ascensori “ sociali per far salire, indipendentemente dalle origini, i più bravi e i più volenterosi? Ebbene oggi viviamo in un Paese ancora bloccato, con profondissime disuguaglianze, dove la mancanza di mobilità sociale e l'incapacità di far prevalere il merito sull'estrazione familiare o corporativa sono diventate quasi proverbiali e spesso drammaticamente tollerate.
Oggi abbiamo una grande occasione. La storia ci regala un'ultima opportunità: abbiamo assistito all'affondamento del capitalismo vorace nato all'insegna della deregolamentazione estrema e speriamo anche nel tramonto dello strapotere della finanza. Al centro dobbiamo riportare la Persona e il Lavoro.
In cima all'agenda mondiale ci deve essere la rifondazione del capitalismo sulla base di nuove regole.
La crisi deve diventare per noi un'ossessione, l'obbiettivo sul quale concentrare tutto il nostro impegno. Il resto è secondario e solo funzionale a un progetto più alto.
Dobbiamo mettere l'orecchio a terra, ascoltare più che parlare. Ascoltare anche chi non fa parte della nostra stretta cerchia. Significa stare alla larga il più possibile dai “luoghi protetti”: quelli in cui ti contorni solo dei tuoi.
On. Renato Cambursano
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento