domenica 7 ottobre 2007

La questione birmana

Le notizie che da due giorni giungono dalla città di Rangoon non posso esimere l’Italia dei Valori e l’intero Paese dal lanciare un messaggio forte, sia nel consesso internazionale dell’Onu, sia in quello di Bruxelles.
Oggi più che mai, l’Unione Europea deve far sentire la sua voce perché lo sviluppo della democrazia e dei principi liberali non può passare solo attraverso trattati internazionali e scambi commerciali, men che meno attraverso quell’errore già commesso in passato dall’amministrazione statunitense di considerare i principi di libertà e democrazia come un qualsiasi prodotto esportabile.
Oggi, davanti a quei morti, davanti alle decine di migliaia di manifestanti caricati dalle forze armate birmane, di fronte ai duecento o più arrestati e, soprattutto, dinnanzi alla forza di questo popolo che in questi giorni chiede pacificamente il ritorno ad uno stato di diritto, non possiamo e non vogliamo voltare la testa.
Hanno manifestato, percorrendo le strade del Paese, soffermandosi di fronte all’abitazione nella quale, da cinque anni, il premio nobel (1991) Aung San Suu Kyi (leggi A’n-San-Su-Ci) è agli arresti domiciliari per il solo fatto di essere diventato, con il suo impegno a favore della libertà e dei diritti umani, il simbolo dell’opposizione democratica, quella che vinse le libere e regolari elezioni del 1990, la medesima forza politica che avrebbe potuto aiutare il paese ad uscire dalla condizione di povertà e sudditanza internazionale.
Sì, sudditanza, perché dietro la giunta militare birmana c’è ben altro che la nota crudeltà e la cupidigia di potere dei generali, i quali attraverso un colpo di stato trasformarono il paese in un regime autoritario, dopo le elezioni del ’90. Dietro i generali, infatti, si nascondo gli interessi delle superpotenze vicine, della Cina come dell’India. Di colossi finanziari e commerciali con i quali l’Europa mantiene tanto ottimi rapporti economici quanto pessimi rapporti sociali. Perché allora non porre a queste nazioni il medesimo trattamento che si pone nei confronti dei paesi che aspirano a diventare membri dell’Ue? Perché non punire, attraverso limiti nei flussi import-export, i nostri partner economici, qualora il benessere che insieme aiutiamo a sviluppare non divenga comune e condiviso a tutti i loro cittadini? Perché non porre la questione dei diritti umani anche nei negoziati commerciali?
Dicevo, due colossi asiatici che hanno sostenuto e sostengono, più o meno apertamente, la giunta militare di Naypyidaw (la capitale). L’India con un diplomatico e gattopardiano no comment, la Cina con un voto contrario nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al pari di questi poi, il comportamento speculare di Putin che insieme a Pechino ha negato l’inasprimento delle sanzioni per evitare che un discorso simile a quello indirizzato oggi alla giunta birmana possa un domani essere rivolto contro la stessa Mosca sulla questione cecena, come su quella georgiana. E allora, perché non riavviare il processo di riforma del Consiglio di Sicurezza Onu? Perché affrontare le problematiche che il nuovo assetto internazionale ci pone con una squadra costituita su principi e logiche vecchie di sessant’anni?
Senza dimenticare la Total francese che ha stretto forti accordi con la giunta militare per sfruttamento delle risorse minerarie del paese.
Certo, non possiamo non salutare favorevolmente, seppur ancora troppo poco rilevante nella sua portata, la notizia sull’apertura di Pechino nei confronti della situazioni di crisi birmana. Pare infatti che anche il governo cinese abbia rivolto un messaggio di monito a quello del Myanmar, esortandolo a moderare le reazioni contro i manifestanti.
Altresì, la notizia giunta nella mattinata di una presa di posizione netta e, speriamo, definitiva da parte di Bruxelles tesa ad un rafforzamento delle sanzioni economiche nei confronti di Myanmar, trova la nostra piena soddisfazione, ma non possiamo non sentire ancora pesanti le parole che oggi accampano sulle pagine del Corriere della Sera, a firma Bill Emmott, un esperto analista di affari internazionali, che ritiene che i commenti degli “estranei non faranno una grande differenza” sulla vita e sul futuro dei birmani. Forse Emmott avrà ragione, ma proprio per questo, oggi è necessario dimostrare quanto certe ipotesi possano risultare errate. Chiediamo un impegno chiaro e distintivo delle Nazioni Unite, chiediamo un intervento forte e mirato, che non prenda in considerazione lo scellerato uso della forza armata ma che usi adeguati strumenti sanzionatori, da quelli economici a quelli finanziari e commerciali, che non colpisca la popolazione già vessata da circa vent’anni di dittatura, come spesso accade, ma che punti a destituire la giunta militare attraverso una diplomazia accorta ma veloce ed efficiente.

Rebecchi Lorenzo

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